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NATO: IL DOPO STOLTENBERG RESTA ANCORA UN REBUS

DOPO NO DI DRAGHI ALL’ITALIA IL COMITATO MILITARE?

ROMA – La fase più delicata della crisi ucraina che sta contrapponendo Russia (e forse anche Cina) con tutto l’Occidente coincide con una crisi di leadership sui futuri assetti dell’Alleanza Atlantica. E l’incarico di segretario generale sta assumendo un profilo molto più delicato dal punto di vista politico rispetto al passato.

All’inizio del 2022 Jens Stoltenberg, norvegese, segretario generale della NATO, stava per lasciare il suo incarico dopo otto anni e si preparava ad assumere l’incarico di nuovo direttore della Banca centrale della Norvegia. Poi, a rimettere tutto in discussione, ci ha pensato, il 24 febbraio 2022, l’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe. A quel punto, Stoltenberg ha ottenuto una proroga che scadrà il 1 ottobre di quest’anno. Stoltenberg è pienamente consapevole di non godere affatto del sostegno unanime degli Stati membri (anche alcuni grandi Paesi del Nord Europa) e prudentemente ha già fatto sapere che non intende chiedere un’altra proroga.

Ma se il meccanismo per la selezione e la candidatura del nuovo segretario generale della Nato (frutto di consultazioni informali dei soli capi di Stato e di Governo dei 31 Paesi membri) dovesse incepparsi nel corso del prossimo vertice Nato di Vilnius previsto per l’11 e 12 luglio prossimi, una miniproroga per Stoltenberg, almeno fino all’aprile del 2024 (data per la celebrazione dei 75 anni dell’Alleanza) non sarebbe affatto esclusa.

Miniproroga che, a quel punto, Stoltenberg accetterebbe di buon grado e si concilierebbe, per di più, con i tempi necessari alla presidente uscente della Commissione, Ursula von der Leyen per candidarsi alla guida della Nato lasciando il suo attuale incarico dopo le elezioni europee della primavera del 2024. Alcuni Stati membri della Nato, a cominciare dalla Germania, avrebbero infatti suggerito alla presidente della Commissione di candidarsi per il “dopo Stoltenberg” e anche la Francia non ha motivi per opporsi. E’ invece abbastanza scontata l’opposizione del Regno Unito che ha poca fiducia nelle capacità della von der Leyen nel settore militare e della sicurezza pur essendo stata in passato ministra della Difesa del governo tedesco.

Ma sarebbe stata la stessa von der Leyen recentemente a smentire le voci di una sua candidatura. «La presidente non è una candidata per quell’incarico», ha tagliato corto un portavoce di von der Leyen a Politico, «e non ha alcun commento su questa ipotesi». In realtà, l’attuale presidente della Commissione punterebbe a una riconferma nel suo attuale incarico come “spitzenkandidat” del Ppe che a quel punto verrebbe votata anche dal Governo di Berlino.

Il totonomine vede attualmente in pole position l’attuale ministro della Difesa britannico Ben Wallace, molto apprezzato dai sui colleghi durante i vertici del Consiglio atlantico, un ottimo rapporti con il ministro della Difesa italiano, Guido Crosetto anche per i numerosi rapporti di collaborazione nell’industria della difesa italiana (Leonardo) e inglese.

Non si esclude che il premier inglese Rishi Sunak ne abbia parlato con la presidente del consiglio italiana Giorgi Meloni in visita a Londra giovedì e venerdì scorsi. La sua candidatura potrebbe ridare al Regno Unito una presenza di peso a Bruxelles dopo la Brexit e a distanza di oltre 20 anni dall’ultimo segretario generale della Nato, l’ex segretario alla Difesa George Robertson (di cui era segretario generale aggiunto l’ambasciatore italiano Alessandro Minuto Rizzo).

Ma nel totonomine vengono inseriti da qualche settimana anche il premier spagnolo Pedro Sanchez e l’attuale prima ministra estone Kaja Kallas, 45 anni, in carica dal 2021 e appartenente a un partito che ha appena stravinto le elezioni parlamentari schierandosi in maniera molto dura contro la Russia e la Cina.

Mark Rutte, primo ministro olandese dal 2010, altro candidato potenziale, viene percepito, al contrario, per la postura troppo arrendevole nei confronti di Russia e Cina. Per di più l’Olanda non avrebbe una grande tradizione militare e sembra ancora lontana dal raggiungere l’obiettivo condiviso dai Paesi NATO, ossia di raggiungere il 2 % del Pil in spese militari.

E l’Italia? Gli Stati Uniti in più di un’occasione, sia pure in maniera informale, avrebbero fatto filtrare nei mesi scorsi il loro sostegno convinto a una candidatura dell’ex premier italiano, Mario Draghi a nuovo segretario generale. Una sorta di compensazione come promesso dall’ex presidente Usa, Barack Obama al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano nel settembre 2015 dopo lo “sgambetto” di Washington che fece naufragare la candidatura dell’ex ministro e commissario Ue, Franco Frattini a tutto vantaggio della nomina del norvegese Stoltenberg dopo il danese Rasmussen.

Sul nome di Draghi anche l’attuale presidente del Consiglio, Giorgia Meloni non avrebbe avuto esitazioni a sostenerlo. Se Draghi stesso non avesse, nel frattempo, stroncato alla radice ogni ipotesi al riguardo. Anche l’ex ministro della Difesa, Antonio Martino rinunciò a candidarsi a segretario generale della Nato “per problemi personali” durante il Governo Berlusconi pur avendo ottenuto il pieno appoggio del segretario alla Difesa Usa Rumsfeld. L’unico segretario generale della Nato italiano resta così l’ambasciatore Manlio Brosio. Ma correva l’anno 1964.

Una forma di compensazione l’Italia potrebbe comunque ottenerla nel caso in cui l’attuale Capo di Stato maggiore della Difesa italiana, l’ammiraglio Giovanni Cavo Dragone venisse nominato alla guida del Comitato militare della Nato, organismo operativo di prim’ordine nella gerarchia dell’Alleanza dove già avevano servito in passato Giampaolo di Paola e Guido Venturoni. Sempre che qualche Paese non obietti troppo sui 66 anni dell’ammiraglio Cavo Dragone che arriveranno a 70 a fine mandato.

Nel frattempo resta sempre un “mantra” quanto affermato da un diplomatico alla rivista Foreign Policy riguardo alla nomina del segretario della Nato: «E’ la nomina meno trasparente fra tutte le elezioni».

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